Circolari
p56661MI
» 28.04.2006
In attesa dell'intervento delle Sezioni Unite, Confindustria aveva escluso la sussistenza di un obbligo, in capo al datore di lavoro, di effettuare il versamento delle quote sindacali, per il tramite dell'istituto della cessione, su richiesta del lavoratore, a favore di organizzazioni sindacali non firmatarie del CCNL che regola le modalità di riscossione dei contributi sindacali.
Nella sentenza n. 28269/2005, invece, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate nel senso dell’utilizzabilità dell’istituto della cessione del credito, in materia di contributi sindacali, come già affermato nelle sentenze della Sezione Lavoro n. 3917 e n. 14032 del 2004.
Secondo i Giudici delle Sezioni Unite, per effetto dell’abrogazione referendaria dell’art. 26, commi secondo e terzo della legge n. 300 del 1970, la materia dei contributi sindacali è rimessa interamente all’autonomia privata, sia individuale che collettiva, cosicché resta ammissibile, senza limitazioni, il ricorso a tutti i possibili strumenti negoziali che consentono di realizzare lo scopo di versare ai sindacati la quota associativa mediante ritenuta sulla retribuzione.
Conseguentemente, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di eseguire i pagamenti a favore dei sindacati non firmatari, cessionari delle quote retributive, configuri “un inadempimento che, oltre a rilevare sotto il profilo civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto oggettivamente idonea a limitare l'esercizio dell'attività e dell'iniziativa sindacale”.
Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, l'effetto del rifiuto è quello di privare i sindacati che non hanno stipulato i contratti collettivi della possibilità di percepire con regolarità la fonte primaria di sostentamento per lo svolgimento della loro attività, cosicché sarebbero posti in una situazione di debolezza, non solo nei confronti del datore di lavoro, ma anche delle altre organizzazioni sindacali con cui sono in concorrenza.
Senonchè questo orientamento delle Sezioni Unite è già stato disatteso da due successive pronunce di merito (Tribunale Torino 6/3/2006 e Tribunale Ascoli Piceno 17/3/2006).
Entrambi i Giudici di merito, infatti, hanno ritenuto utilizzabile, in materia di contributi sindacali, l’istituto della delegazione di pagamento ed hanno, quindi, escluso l’antisindacalità del rifiuto del datore di lavoro di operare le trattenute sulle quote di retribuzione cedute dal lavoratore per il pagamento dei contributi sindacali.
In ogni caso, occorre sottolineare che la stessa sentenza n. 28269/2005 delle Sezioni Unite afferma il principio dell’utilizzabilità della cessione di quote della retribuzione per finanziare le organizzazioni sindacali solo con riferimento al regime normativo vigente fino al 31 dicembre 2004, ossia prima della modifica legislativa che ha esteso ai datori di lavoro privati l'applicazione del D.P.R. n. 180/1950 (contenente il divieto generale di sequestrabilità, pignorabilità e cedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti).
Nel contesto normativo precedente a tale modifica, precisa il Supremo Collegio, vigeva, per l'impiego privato, il principio generale della libera cedibilità dei crediti di cui all’art. 1260 del cod. civ. (vedi Cass. 1/4/2003, n. 4930) e, pertanto, non si dubitava dell’ammissibilità della cessione dei crediti retributivi dei lavoratori del settore privato, non trovando per essi applicazione l'art. 1 del D.P.R. n. 180/1950 (che, appunto, prevede il divieto generale di sequestrabilità, pignorabilità e cedibilità di stipendi, salari, pensioni ed altri emolumenti).
Senonchè, la legge n. 311/2004 (art. 1, comma 137) e il successivo intervento di riforma della legge n. 80/2005 (art. 13-bis), hanno modificato, tra l’altro, l’art. 1 del D.P.R. n. 180/1950, aggiungendo il riferimento anche alle aziende private. Di conseguenza, hanno osservato i giudici della Suprema Corte nella sentenza n. 28269/2005, i compensi erogati dai datori di lavoro privati sono ora da considerarsi “incedibili al di fuori dei casi consentiti dal medesimo testo normativo”.
Dunque, in base alle osservazioni delle Sezioni Unite della Cassazione, a seguito dell’entrata in vigore, per i dipendenti privati, della disciplina limitativa della cessione della retribuzione di cui al D.P.R. n. 180/1950, come modificato dalla legge n. 311/2004, l'istituto della cessione della retribuzione del lavoratore non può essere più utilizzato per il pagamento delle quote sindacali a favore di associazioni sindacali non firmatarie del contratto collettivo, perché non rientra tra i “ casi consentiti dal medesimo testo normativo”.
La fondatezza di tale conclusione assume tanto più valore laddove, nel contempo, gli stessi giudici, riferendosi al regime normativo precedente, erano giunti alla soluzione opposta.
Pertanto, stante il carattere inderogabile della disciplina del D.P.R. n. 180, l’istituto della cessione della retribuzione non può più essere liberamente utilizzato per qualsiasi pagamento da destinare ad un terzo, ma esclusivamente per le finalità che il legislatore ha ritenuto meritevoli di tutela, ovvero estinguere prestiti contratti con gli istituti finanziari espressamente autorizzati dalla legge.
La natura inderogabile della disciplina del D.P.R. n. 180 trae fondamento nell’interpretazione sistematica delle disposizioni dello stesso testo unico ed, in particolare, nel disposto degli articoli 1, 5, 52 e 55.
Infatti, l’art. 1 del D.P.R. n. 180, nello stabilire, tra l’altro, il divieto di cedibilità dei crediti di lavoro anche per i dipendenti privati, fa salve le eccezioni previste negli articoli seguenti e in altre disposizioni di legge.
Nell’ambito di tali eccezioni, il successivo art. 5 disciplina espressamente la facoltà degli impiegati e salariati di contrarre prestiti da estinguersi mediante cessione della retribuzione nei limiti del quinto, mentre l’art. 52 specifica alcune condizioni che legittimano il ricorso alla cessione della retribuzione da parte di specifiche categorie di lavoratori (a tempo indeterminato, a tempo determinato, collaboratori di cui all’art. 409 c.p.c).
Infine, l’art. 55 prevede l’applicazione di alcune disposizioni del titolo II, relative a specifici requisiti di validità della cessione, facendo riferimento espressamente a “tutte le operazioni di prestiti verso cessione di quote di stipendio o salario contemplate nel presente titolo”.
Dal combinato disposto delle disposizioni citate risulta che il legislatore ha inteso garantire una tutela ampia dei crediti di lavoro, legittimandone la cessione qualora questa rispetti, non solo i limiti quantitativi e gli altri requisiti previsti dalle disposizioni del Testo unico, ma anche la causa/finalità a cui deve essere preordinata la cessione stessa, ovvero l’estinzione dei prestiti nei confronti di intermediari finanziari autorizzati.
Al di fuori di questa eccezione, pertanto, opera il divieto generale di cedibilità, di cui all’art. 1 del D.P.R. n. 180, divenuto applicabile, quindi, anche nel caso di pagamento di quote di retribuzione destinate al finanziamento di organizzazioni sindacali.
La tesi della non utilizzabilità dell’istituto della cessione della retribuzione al fine del versamento dei contributi sindacali è coerente con le clausole dei contratti collettivi in materia, che sono formulate in modo tale da configurare lo schema giuridico della delegazione di pagamento a favore dei sindacati firmatari. Pertanto, tali clausole sono pienamente legittime ed efficaci.
Ed infatti, l’istituto della delegazione di pagamento, pur disciplinata dal D.P.R. n. 180 per i dipendenti pubblici, non è stato oggetto di specifica estensione per i dipendenti privati e, pertanto, è assoggettato alle disposizioni del codice civile.
La normativa civilistica, in particolare, non prevede limiti all’utilizzabilità dell’istituto della delegazione e richiede, in ogni caso, soltanto il consenso/accettazione della delega da parte del datore di lavoro.
L’interpretazione della normativa sulla cessione che si propone, produce i suoi effetti non solo sulle cessioni future, cui non si potrà più dar corso se risultano in contrasto con le finalità del D.P.R. n. 180, ma anche sulle cessioni già in corso.
Infatti, sul piano strettamente giuridico, il carattere inderogabile della normativa comporta l’effetto della nullità di tutte le fattispecie di cessioni che risultino non conformi alle disposizioni del D.P.R. n. 180, ma siano tuttora in corso, anche se sono state poste in essere prima dell’estensione ai dipendenti privati del D.P.R. n.180.
In coerenza con le conclusioni cui si è pervenuti, le imprese dovranno, pertanto, evitare di dar corso a cessioni della retribuzione che siano poste in essere per fini diversi da quelli previsti dal D.P.R. n. 180 (ad esempio, trattenute per pagare le assicurazioni, quote per circoli ricreativi ecc.) e, semmai, anche per ovviare ad eventuali problemi che dovessero porsi nella gestione delle situazioni in atto, con il rischio di possibili contenziosi, avvalersi dello schema della delegazione di pagamento.
Ed infatti, l’inderogabilità della normativa del D.P.R. n. 180 non può farsi valere solo in tema di cessioni finalizzate a finanziare le organizzazioni sindacali, ma per ogni altro tipo di finalità che non sia riconducibile a quelle di cui al D.P.R. n. 180.
Se l'impresa non adottasse comportamenti coerenti dando corso, ad esempio, a cessioni della retribuzione al di fuori dei limiti del D.P.R. n. 180, il successivo rifiuto di operare la cessione di quote retributive a favore dei sindacati non firmatari di CCNL, potrebbe configurare una condotta antisindacale.
Ne consegue che rimangono confermate le indicazioni già fornite precedentemente da Confindustria, con un ulteriore conforto di quanto previsto dal D.P.R. n. 180, così come interpretato dalle Sezioni unite n. 28269 del 2005.
Cordiali saluti.
Il Direttore
Francesco Tiriolo
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